In Italia la realtà dei campi rom, rappresenta la risposta delle amministrazioni locali di fronte alla problematica determinatasi dall’arrivo nel nostro Paese di comunità, identificate come di etnia rom, fuggite dai diversi processi di dissolvimento dell’ex Repubblica Jugoslava. Cittadini in fuga da crisi economiche prima e da conflitti bellici dopo, non vennero riconosciuti, come avvenuto altrove, come “richiedenti asilo”, bensì, secondo una visione erronea e fuorviante, come “nomadi”, incapaci e inadatti a vivere in abitazioni convenzionali. Nomadi per libera scelta e nomadi secondo una cultura da salvaguardare.
A partire dagli anni Settanta – quando già nelle periferie delle città del Nord si registravano piccoli accampamenti di comunità sinte e di rom istriani e nel Sud, in prossimità delle fiumare, insediamenti di rom italiani di antico insediamento – si osservò il primo massiccio flusso di rom provenienti dall’ex Jugoslavia. Si stima che dagli anni Settanta al 1992 furono 35.000; altri 10.000 sarebbero arrivati negli anni successivi durante la guerra in Bosnia Erzegovina.
Dal 1985 diverse Regioni italiane, al fine di governare il fenomeno, promossero azioni legislative volte a “salvaguardare il patrimonio culturale e l’identità rom”, raccomandando e finanziando la costruzione di “riserve etniche” denominate impropriamente “campi nomadi”.
Ad inizio anni Novanta si registrò la nascita del campo di Masini, in provincia di Firenze, abitato; del campo san Ranieri, a Messina; dell’insediamento di Salviati, inaugurato a Roma dalla Giunta guidata da Francesco Rutelli. Lo stesso accade a Milano, Torino, Napoli, Treviso e Brescia. Una condizione che farà dell’Italia, il “Paese dei campi”, secondo la felice denominazione ideata dall’European Roma Rights Centre nell’anno 2000, in quanto la nazione, nel panorama europeo, che più avrà investito risorse umane ed economiche per la creazione e la gestione del dispositivo escludente e marginalizzante denominato impropriamente “campo nomadi”.
Mettete la parola “ebreo” ogni volta che compare il termine “rom” o “sinto”. Prima si leggano i testi, e poi si rifletta sull’effetto che farebbe di sentire parlare dei “campi ebrei”; dei “centri di raccolta ebrei”; delle “case popolari per soli ebrei”; di “Piani per l’inclusione degli ebrei”.
Leonardo Piasere
Per le comunità sinte, identificate anch’esse come parte dell’unica famiglia “nomade”, vennero organizzati spazi su base etnica dove far parcheggiare, in una forma che diventerà sempre più permanente, le loro case mobili e le loro roulotte. Successivamente, a partire dalla fine degli anni Novanta, anche alle famiglie rom rumene in fuga dalle persecuzioni della Romania del dopo Ceausescu e dalla conseguente crisi economica e finanziaria, vennero aperte le porte dei “campi nomadi”, nella convinzione di aver a che fare con una popolazione omogenea, con le stesse origini, tradizioni, lingue e culture. Per i rom italiani di antico insediamento, invece, si andarono realizzando nel Sud Italia quartieri di edilizia residenziali pubblica riservati secondo un preciso criterio etnico. Recente è l’invenzione dei centri di raccolta rom, strutture pubbliche per un’accoglienza riservata a famiglie rom.
Lo spazio per un abitare diverso – sia esso all’aperto che dentro un’abitazione convenzionale – caratterizzato dall’esclusione sociale e da un approccio discriminatorio che negli anni si tramuterà in un dispositivo, dove si mescoleranno azioni assistenziali e sgomberi forzati, bandi milionari e condizioni di miseria assoluta. E dal quale nascerà e si alimenterà lo stigma dello “zingaro brutto, sporco e cattivo”.
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IL SUPERAMENTO DEI CAMPI ROM
Per chiudere un insediamento basterebbe solo una ruspa. Decidendo così di impegnare ingenti risorse pubbliche per spostare altrove il problema, spesso aggravandolo.
Per superarlo occorre la visione di un Paese inclusivo, capacità di promuovere azioni complesse, programmazione nell’indirizzare gli interventi verso l’inclusione.
Negli ultimi anni sempre più Amministrazioni locali stanno optando verso azioni di superamento e dall’analisi di tali politiche pubbliche – partendo dai punti di forza e di debolezza che le hanno contraddistinte – è possibile disegnare sotto forma di linee guida, le modalità con cui è possibile pianificare e implementare politiche e interventi finalizzati al superamento definitivo di insediamenti abitativi monoetnici e all’inclusione sociale degli abitanti.
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