Per oltre 30 anni, i campi rom sono stati la soluzione di riferimento con cui l’Italia ha gestito la presenza in Italia di comunità provenienti dall’est Europa (Ex Jugoslavia e Romania in primo luogo). Una scelta determinata da una visione culturalista, che etichettava tutte queste persone erroneamente come nomadi. Fortunatamente, a partire dal 2018 è iniziato un graduale processo di superamento dei campi.
“Campi nomadi”, il grande inganno di una definizione fuorviante
In Italia la realtà dei campi rom, rappresenta la risposta delle amministrazioni locali di fronte alla problematica determinatasi dall’arrivo nel nostro Paese di comunità, identificate come di etnia rom, fuggite dai diversi processi di dissolvimento dell’ex Repubblica Jugoslava. Cittadini in fuga da crisi economiche prima e da conflitti bellici dopo, che non vennero riconosciuti, come avvenuto altrove, come “richiedenti asilo”, bensì, secondo una visione erronea e fuorviante, come “nomadi”, incapaci e inadatti a vivere in abitazioni convenzionali. Nomadi per libera scelta e nomadi secondo una cultura da salvaguardare. Ed è proprio questo l’equivoco su cui si è fondata l’ideologia dei campi, come rilevato anche dallo European Roma Rights Centre, che in un report del 2010 ha definito l’Italia come il paese dei campi, in quanto nazione, nel panorama europeo, che più ha investito risorse umane ed economiche per la creazione e la gestione del dispositivo escludente e marginalizzante denominato impropriamente “campo nomadi”.
«Alla base dell’approccio del governo italiano nei confronti dei rom c’è la convinzione che i rom siano “nomadi”. Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, dieci delle venti regioni italiane hanno adottato leggi volte alla “protezione delle culture nomadi” attraverso la costruzione di campi segregati. Di conseguenza, molti rom sono stati effettivamente costretti a vivere le proiezioni romantiche e repressive degli italiani; le autorità italiane affermano che il loro desiderio di vivere in appartamenti o case è inautentico e li relegano nei “campi per nomadi».
Mettete la parola “ebreo” ogni volta che compare il termine “rom” o “sinto”. Prima si leggano i testi, e poi si rifletta sull’effetto che farebbe di sentire parlare dei “campi ebrei”; dei “centri di raccolta ebrei”; delle “case popolari per soli ebrei”; di “Piani per l’inclusione degli ebrei”.
Leonardo Piasere
La genesi dei campi rom in Italia
A partire dagli anni Settanta – quando già nelle periferie delle città del Nord si registravano piccoli accampamenti di comunità sinte e di rom istriani e nel Sud, in prossimità delle fiumare, insediamenti di rom italiani di antico insediamento – si osservò il primo massiccio flusso di rom provenienti dall’ex Jugoslavia. Si stima che dagli anni Settanta al 1992 furono 35.000; altri 10.000 sarebbero arrivati negli anni successivi durante la guerra in Bosnia Erzegovina.
L’impossibilità per moltissimi profughi di dimostrare la data effettiva del loro ingresso in Italia preclude loro la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno umanitario previsto dalla Legge 10 n.390/1992. Tale difficoltà, unita alla percezione, da parte delle amministrazioni locali, di questi spostamenti di comunità come manifestazioni di un nomadismo volontario generato da una cultura diversa, anziché migrazioni di necessità, portano all’implementazione di politiche speciali e alla realizzazione di insediamenti che rispecchino tale peculiarità culturale. Ai rom fuggiti dalle guerre è di fatto consentita, in quanto nomadi, la permanenza sul territorio italiano senza però che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato.
Dal 1985 diverse Regioni italiane, al fine di governare il fenomeno, promossero azioni legislative volte a “salvaguardare il patrimonio culturale e l’identità rom”, raccomandando e finanziando la costruzione di “riserve etniche” denominate impropriamente “campi nomadi”.
Il 10 giugno 1985 la Regione Lazio fa da apripista pubblicando la, ancora vigente, Legge Regionale del 24 maggio 1985 n.82 dal titolo “Norme in favore dei ROM” che nell’ottica di «evitare impedimenti al diritto al nomadismo» istituisce e regola la costruzione dei “campi nomadi”. Tre anni dopo, nel 1988, anche la Regione Sardegna, l’Emilia-Romagna e il Friuli-Venezia Giulia emanano leggi simili a tutela della “cultura rom”. Nello stesso giorno, il 22 dicembre 1989, Regione Veneto e Regione Lombardia adottano rispettivamente la legge “Interventi a tutela della cultura dei Rom e dei Sinti” e “Azione regionale per la tutela delle popolazioni appartenenti alle etnie tradizionalmente 1nomadi e seminomadi”. Nel decennio successivo, altre tre regioni, Umbria, Piemonte e Toscana, adottano norme simili. Queste leggi regionali, alcune delle quali ancora in vigore, hanno influenzato notevolmente le politiche nazionali e locali riguardanti l’abitazione, creando una profonda frattura tra un’abitazione convenzionale e un’abitazione a misura di persone “dedite al nomadismo”, realizzando così dispositivi di apartheid
Ad inizio anni Novanta si registrò la nascita:
- del campo di Masini, in provincia di Firenze, abitato;
- del campo san Ranieri, a Messina;
- dell’insediamento di Salviati, inaugurato a Roma dalla Giunta guidata da Francesco Rutelli.
Lo stesso accadde a Milano, Torino, Napoli, Treviso e Brescia.
Per le comunità sinte, identificate anch’esse come parte dell’unica famiglia “nomade”, vennero organizzati spazi su base etnica dove far parcheggiare, in una forma che diventerà sempre più permanente, le loro case mobili e le loro roulotte. Successivamente, a partire dalla fine degli anni Novanta, anche alle famiglie rom rumene in fuga dalle persecuzioni della Romania del dopo Ceausescu e dalla conseguente crisi economica e finanziaria, vennero aperte le porte dei “campi nomadi”, nella convinzione di aver a che fare con una popolazione omogenea, con le stesse origini, tradizioni, lingue e culture. Per i rom italiani di antico insediamento, invece, si andarono realizzando nel Sud Italia quartieri di edilizia residenziali pubblica riservati secondo un preciso criterio etnico. Recente è l’invenzione dei centri di raccolta rom, strutture pubbliche per un’accoglienza riservata a famiglie rom.
Lo spazio per un abitare diverso – sia esso all’aperto che dentro un’abitazione convenzionale – caratterizzato dall’esclusione sociale e da un approccio discriminatorio che negli anni si tramuterà in un dispositivo, dove si mescoleranno azioni assistenziali e sgomberi forzati, bandi milionari e condizioni di miseria assoluta. E dal quale nascerà e si alimenterà lo stigma dello “zingaro brutto, sporco e cattivo”.
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Cos’è un campo rom: un problema di definizione (h2)
A questo punto, però, è doverosa una precisazione: parlare di “campi rom” significa usare un’etichetta comoda, ma profondamente imprecisa. Sotto questo termine, infatti, si celano diverse tipologie di insediamenti abitativi molto diversi tra loro, accomunati, come già detto, da un tratto distintivo: l’origine etnica delle persone che li abitano e la logica segregativa che li ha generati. Baraccopoli, microaree, macroaree, centri di raccolta, edifici pubblici monoetnici: strutture pensate e gestite da enti pubblici, spesso con il preciso intento di confinare comunità rom e sinte in spazi separati, fuori dal tessuto urbano e lontani dai diritti garantiti agli altri cittadini.
Nel dettaglio, secondo al ricognizione proposta dall’Associazione 21 Luglio, in Italia esistono i seguenti insediamento formali per rom e sinti.
- Baraccopoli. Aree recintate situate ai margini urbani, composte da container, roulotte e baracche. Talvolta disciplinate da regolamenti comunali, videosorvegliate e presidiate da forze dell’ordine. Frequentemente abitate da cittadini rom, molti dei quali italiani.
- Microaree. Presenti soprattutto al Centro-Nord, sono spazi pubblici attrezzati per famiglie sinte italiane. Sono regolamentate dalle amministrazioni locali e ospitano comunità stabili e ristrette.
- Macroaree. Diffuse nel Nord Italia, accolgono principalmente famiglie sinte. Possono includere abitazioni in muratura o case mobili, accesso ai servizi, regolare residenza anagrafica e presenza di mezzi legati allo spettacolo viaggiante.
- Edilizia residenziale pubblica monoetnica. Edifici interamente dedicati a famiglie rom, come a Pisa o a Gioia Tauro. Sono isolati, carenti nei servizi e spesso inadeguati sotto il profilo abitativo.
- Centri di raccolta rom. Strutture chiuse nate da situazioni emergenziali, come ex scuole o padiglioni fieristici. Offrono spazi comuni, sorveglianza e pasti, ma finiscono per diventare sistemazioni stabili, in violazione del loro presunto carattere temporaneo.
Accanto agli insediamenti formali, esistono poi realtà più fragili e meno visibili, cioè o cosiddetti insediamenti informali: tende e baracche auto-costruite, nascoste nelle periferie urbane per sfuggire ai controlli. Costituiscono una “strategia dell’invisibilità” per evitare sgomberi. Si dividono in:
- Microinsediamenti: piccole aree occupate da una o più famiglie, spesso in zone isolate e difficili da rilevare (in molti casi, sono la diretta conseguenza di sgomberi forzati o di progetti comunali falliti);
- Aree di transito: spazi di fortuna dove famiglie rom si fermano temporaneamente con camper o roulotte, spesso in parcheggi o zone marginali, in attesa di soluzioni che non arrivano.
Completano il quadro due fenomeni oggi marginali e difficili da monitorare:
- gli insediamenti su terreni agricoli privati, occupati da nuclei familiari allargati, che pongono problemi di abitabilità ma non nascono da criteri etnici;
- le occupazioni di edifici abbandonati, un tempo frequenti dopo sgomberi, oggi in netta diminuzione.
Anche laddove non c’è più la baracca ma un’abitazione in muratura, restano recinzioni, telecamere, regolamenti speciali, e un’idea di fondo: quella di un’eccezione permanente. Tutto questo compone la geografia di un’emergenza abitativa che dura da decenni, trasformando l’Italia, ancora oggi, nel “Paese dei campi”: un’anomalia europea in cui la casa, per alcune famiglie, è ancora una questione di etnia.
Quanti sono e dove sono i campi rom in Italia oggi, la geografia da nord a sud
Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia si contano 106 insediamenti formali all’aperto (tra baraccopoli e macroaree), distribuiti in 75 comuni e 13 regioni. Di questi:
- 38 sono baraccopoli, dove vivono circa 5.649 rom
- 64 sono macroaree, prevalentemente abitate da 4.931 sinti.

A questi si aggiungono circa 2.000 rom residenti in baraccopoli informali, non riconosciute dalle autorità locali e spesso in condizioni ancora più critiche.

La distribuzione geografica di questi insediamenti è estremamente disomogenea.
Il Nord Italia è l’area con il maggior numero di insediamenti formali e la più alta concentrazione complessiva di rom e sinti (oltre 5.000 persone). Le regioni con il numero maggiore di presenze sono:
- Lombardia: 4 baraccopoli (398 abitanti) e 13 macroaree (1.316 abitanti)
- Piemonte: 2 baraccopoli (171 abitanti) e 16 macroaree (1.439 abitanti)
- Emilia-Romagna: 17 macroaree (1.088 abitanti), tutte senza baraccopoli
In queste regioni prevalgono le macroaree, insediamenti più stabili dal punto di vista urbanistico ma comunque segreganti, destinati spesso esclusivamente a famiglie sinte, tutte di cittadinanza italiana.
Il Centro Italia ospita circa 2.700 persone in insediamenti formali, con una prevalenza di baraccopoli (2.117 abitanti) rispetto alle macroaree (590 abitanti). Il Lazio è la regione con la maggiore concentrazione, in particolare nella città di Roma, che da sola conta sei baraccopoli attive, con circa 1.826 residenti. In questi insediamenti la composizione etnica è a prevalenza balcanica: circa il 70% proviene dall’ex Jugoslavia, il 25% è italiano e il 5% romeno. A differenza di altre regioni, nel Lazio la segregazione è più marcata e le condizioni abitative più critiche, con molte aree prive di servizi essenziali e sottoposte a logiche emergenziali. In Toscana, invece, si rilevano tre baraccopoli (291 abitanti) e nove macroaree (520 abitanti), con una composizione prevalentemente italiana (95%). In questo contesto, pur con minori criticità rispetto al Lazio, la separazione abitativa rimane un elemento distintivo.
Il Sud Italia si caratterizza per la totale assenza di macroaree e la presenza esclusiva di baraccopoli, 20 in totale, che ospitano 2.786 persone. Le regioni coinvolte sono Campania, Puglia, Calabria e Sardegna, con la Campania che registra la presenza più alta (9 baraccopoli con 1.381 abitanti in totale). A Napoli e nell’area metropolitana si trovano alcune delle situazioni più complesse, con insediamenti di origine balcanica o romena, spesso in condizioni di forte degrado. Anche in Puglia la situazione è critica: tre baraccopoli (591 abitanti), con una composizione etnica mista (60% ex Jugoslavia, 20% italiani, 20% romeni). In Sardegna, la popolazione delle sei baraccopoli (338 abitanti) è composta per il 75% da persone originarie dell’ex Jugoslavia.
In sintesi, la mappa dei “campi rom” in Italia mostra una divaricazione territoriale:
- al Nord, prevalgono macroaree più stabili ma segreganti, spesso abitate da cittadini sinti italiani;
- al Centro, le baraccopoli sono numerose e prevalentemente popolate da rom balcanici, con il Lazio a fare da epicentro;
- al Sud, si rileva la maggiore precarietà abitativa, con solo baraccopoli e una presenza significativa di minori e persone a rischio apolidia (emblematico il caso di Giugliano in Campania e in generale della Città metropolitana di Napoli).

Nonostante le denominazioni talvolta eufemistiche impiegate negli atti amministrativi (villaggi, aree sosta, campi attrezzati) queste strutture restano nella maggior parte dei casi luoghi di confinamento fisico e simbolico, dove lo spazio diventa uno strumento di separazione. È anche in questi insediamenti che si concentrano i più bassi indicatori di aspettativa di vita (fino a 10 anni in meno rispetto alla media nazionale) e i più alti tassi di abbandono scolastico, povertà educativa e disoccupazione.
IL SUPERAMENTO DEI CAMPI ROM
Per chiudere un insediamento basterebbe solo una ruspa. Decidendo così di impegnare ingenti risorse pubbliche per spostare altrove il problema, spesso aggravandolo.
Per superarlo occorre la visione di un Paese inclusivo, capacità di promuovere azioni complesse, programmazione nell’indirizzare gli interventi verso l’inclusione.
Negli ultimi anni sempre più Amministrazioni locali stanno optando verso azioni di superamento e dall’analisi di tali politiche pubbliche – partendo dai punti di forza e di debolezza che le hanno contraddistinte – è possibile disegnare sotto forma di linee guida, le modalità con cui è possibile pianificare e implementare politiche e interventi finalizzati al superamento definitivo di insediamenti abitativi monoetnici e all’inclusione sociale degli abitanti.
Per un approfondimento su “Il superamento dei campi rom” cfr. la BIBLIOGRAFIA