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Sotto la lente, un’indagine su come nascono le statistiche sui rom

Il report Sotto la lente analizza come l’Europa raccoglie i dati sulle comunità rom. Campioni deboli, scarsa partecipazione e metodologie standardizzate rischiano di restituire un’immagine distorta, su cui però si costruiscono le politiche. Serve un cambio di prospettiva: non contare i rom, ma valutare quanto i territori sanno includerli.

Le statistiche, i numeri, le percentuali sono oggetti delicati che andrebbero maneggiati con cura, soprattutto quando le decisioni che ne scaturiscono hanno a che fare con le persone e con le loro vite. Ad esempio, “quanti sono i rom in Italia?” sembra una domanda ovvia, dalla risposta facile, ma non lo è affatto. Non lo è perché contare gli appartenenti ad un gruppo etnico non è assolutamente semplice, per una lunga serie di motivi elencati più avanti in questo articolo. Il risultato di questa difficoltà è che quella domanda non può a tutt’oggi avere una risposta chiara e univoca. Eppure, c’è chi afferma il contrario, chi dispensa certezze e chi su quelle certezze ci costruisce decisioni fondamentali e stabilisce come investire (tanti) soldi pubblici. Sotto la lente è il report con cui l’Associazione 21 Luglio ha deciso di analizzare in modo critico le metodologie utilizzate a livello europeo e italiano per monitorare la presenza e l’inclusione delle popolazioni rom e sinti. Metodologie che presentano diverse lacune, che non possono più essere ignorate. Procediamo, però, con ordine.

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Raccolta dati e politiche pubbliche: un legame imprescindibile

Come detto, la raccolta dei dati è il punto di partenza di ogni politica pubblica efficace. Senza dati affidabili, aggiornati e rappresentativi, è impossibile capire quali problemi esistano, quanto siano diffusi e in che direzione intervenire. I dati servono a fotografare la realtà di partenza, ma anche a monitorare nel tempo se le soluzioni adottate funzionano. Inoltre, le statistiche aiutano a decidere dove destinare le risorse, quali priorità darsi e a rendere conto ai cittadini di ciò che è stato fatto. Questo principio vale in ogni ambito, dalla salute alla scuola, dal lavoro alla casa.

Su alcuni temi, però, la questione assume una rilevanza particolare. È il caso dei tentativi di censire gruppi come le comunità rom. Qui la raccolta dati diventa un terreno scivoloso, perché si scontra con tre nodi critici: l’assenza di dati ufficiali disaggregati per etnia, la difficoltà nel definire chi è “rom” e la riluttanza, spesso fondata, a dichiararsi tali. In Italia, ad esempio, non esistono dati istituzionali che consentano di stimare con precisione la condizione sociale delle persone rom. Le informazioni disponibili derivano da ricerche condotte da enti del terzo settore, università o ONG, spesso limitate a specifici territori e non confrontabili tra loro. Inoltre, non esiste un criterio univoco, giuridico o statistico, per stabilire chi rientra nella definizione di “rom e sinti”: si tratta di categorie fluide, politiche, sociali e culturali, che variano a seconda dei contesti e non possono essere ridotte a etichette rigide. Anche la raccolta basata sull’autoidentificazione, largamente adottata a livello europeo, presenta limiti seri. I dati tendono a sottostimare la presenza rom perché molte persone preferiscono non esporsi, temendo stigma, discriminazione o ripercussioni. Il risultato è che chi si espone è spesso chi vive in situazioni di maggiore marginalità, mentre le realtà integrate o meno visibili restano escluse dalle rilevazioni. Questo genera una rappresentazione distorta, che finisce per sovrapporre l’identità rom con condizioni di esclusione sociale. Infine, i pochi dati che ci sono vengono spesso generalizzati oltre i limiti del campione, diventando “verità statistiche” su un’intera popolazione che invece è plurale e diversificata. Una politica pubblica che si fonda su basi fragili non solo rischia di fallire, ma può aggravare proprio quei problemi che pretende di risolvere.

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La raccolta dei dati sulle comunità rom e sinti in Italia e in Europa

Oggi la raccolta di dati sulle comunità rom in Europa e in Italia è affidata principalmente a indagini campionarie promosse dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA). Si tratta di ricerche periodiche, realizzate attraverso bandi pubblici che coinvolgono istituti demoscopici e, in alcuni casi, organizzazioni rom come supporto sul campo. Due le rilevazioni principali analizzate dal report Sotto la lente: una condotta nel 2011, l’altra nel 2021, entrambe con l’obiettivo di misurare il grado di inclusione dei rom in diversi Paesi europei, Italia compresa. In assenza di dati ufficiali disaggregati per etnia, la costruzione del campione si basa su una fase preliminare di mappatura informale dei territori a più alta concentrazione rom, spesso effettuata con l’aiuto di associazioni locali. A partire da queste informazioni, vengono selezionate le aree in cui svolgere le interviste. La metodologia più utilizzata è quella del random route, ovvero un percorso casuale all’interno di quelle aree per individuare le famiglie da intervistare. Gli intervistati devono autodefinirsi rom e avere vissuto per almeno 12 mesi nel Paese in questione. Le interviste sono condotte da operatori formati ad hoc dagli istituti di ricerca incaricati, talvolta con la partecipazione di referenti rom. I questionari sono standardizzati, costruiti per raccogliere dati su istruzione, lavoro, abitazione, salute, povertà, discriminazione, partecipazione civica. I dati raccolti non pretendono di essere rappresentativi dell’intera popolazione rom di un Paese, ma vengono spesso usati come se lo fossero, influenzando le narrazioni pubbliche e le scelte politiche. In Italia, l’ultima rilevazione ha coinvolto l’istituto Lexis Ricerche, con il supporto di Opera Nomadi. Le aree esplorate comprendevano grandi città e territori a forte presenza rom, tra cui Roma, Napoli, Torino, Reggio Calabria, Foggia, Verona, Milano. Ma anche qui emerge un problema di fondo: la rappresentatività del campione resta debole e inevitabilmente orientata verso le situazioni più marginali o visibili, come gli insediamenti informali. La fotografia che ne deriva è parziale, e rischia di rafforzare l’associazione tra identità rom e condizione di degrado.

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Punti di forza e di debolezza dell’attuale raccolta dati

L’approccio adottato dalla FRA presenta alcuni punti di forza rilevanti. Anzitutto, l’elevata standardizzazione delle metodologie consente una comparazione tra Paesi europei e una lettura diacronica dei dati nel tempo. L’Agenzia rispetta le indicazioni europee per la raccolta di dati sensibili e si attiene a criteri di qualità nella progettazione delle indagini. Inoltre, nei report stessi, la FRA mostra consapevolezza delle criticità esistenti e si dichiara impegnata a superarle, in particolare per quanto riguarda la rappresentatività del campione e il coinvolgimento attivo delle organizzazioni rom.

Tuttavia, le difficoltà emerse dall’analisi sono ampie e strutturali. In primo luogo, la rilevazione su base etnica presenta limiti epistemologici e politici non aggirabili: l’autodefinizione, sebbene utile, non risolve la reticenza alla partecipazione dovuta al vissuto storico di discriminazione. In secondo luogo, l’impianto quantitativo, basato sul metodo random walk, fatica a integrarsi con il vissuto e le competenze delle organizzazioni rom coinvolte, che spesso si ritrovano a svolgere un ruolo esecutivo, senza reale voce nella progettazione o nella lettura dei dati. La costruzione del campione è un ulteriore punto critico. Le mappature iniziali affidate alle organizzazioni rom risentono inevitabilmente di reti pregresse e conoscenze locali, compromettendo l’idea di casualità. Inoltre, alcune aree italiane con forte presenza rom storica risultano escluse, mentre altre vengono sovra-rappresentate, con l’effetto di restituire una fotografia distorta, centrata sulle condizioni più marginali. Anche i rapporti con gli stakeholder risultano problematici. Le modalità di selezione delle organizzazioni non sono trasparenti, né documentate nei report. Gli istituti di ricerca incaricati, selezionati per criteri economici e professionali, spesso non possiedono una conoscenza adeguata delle comunità rom e sinte italiane e non ricevono una formazione specifica prima dell’avvio delle indagini. Al termine della rilevazione, infine, le organizzazioni coinvolte non vengono aggiornate né messe a conoscenza dei risultati ottenuti.

Una possibile alternativa, già indicata dalla Strategia Nazionale 2021–2030, è quella di spostare l’attenzione dai gruppi etnici ai territori, monitorando il “potenziale inclusivo” di ciascuna area e la capacità delle istituzioni locali di promuovere inclusione e partecipazione. Questo approccio potrebbe restituire un quadro più utile per orientare le politiche pubbliche, senza ricadere in una lettura etnicizzata della marginalità.

Come si supera un campo rom?

Scarica il rapporto completo “Sotto la Lente”

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